di Barbara Stefanelli
da _ Corriere della Sera_
È capitato a tutti i genitori, almeno una volta , d i provare quella sensazione di panico che ti vela la vista quando pensi di aver perso il tuo bambino in aeroporto o in un negozio affollato. Ti sei distratto e lui non c’è più accanto a te.
Ti chiedi se qualcosa di irreparabile possa essere accaduto in pochi secondi.
In quel momento sei Stephen Lewis, il protagonista del romanzo d i Ian McEwan Bambini nel tempo: il padre che non saprà mai come sarebbe cresciuta la sua piccol a Kate, smarrita a tre anni al supermarket.
Lo stesso panico torna quando diventi genitore per la seconda volta: cioè quando tuo figlio o tua figlia arrivano all’adolescenza e tu devi ripartire da zero. Non ti parlano, non sorridono, sono arrabbiati con quasi tutti, sicuramente con te che per loro non sei più la madre o il padre dell’estate prima della tempesta. Sembrano non avere più voglia di quel che nel tempo hai tentato di dare con onestà. Stranieri, in casa. Ma non è sempre stato così, anche quando c’eravamo noi nella stanza del figlio?
La differenza è forse che noi ci sentiamo la generazione di genitori più informati, connessi e collegati al mondo. Disposti a imparare dai nostri «nativi digitali», disposti anche — e fin troppo — ad ammettere le nostre imperfezioni quotidiane nell’esercizio di una genitorialità appassionata. È a quel punto che scatta la tentazione del controllo. La tentazione di diventare tutti insieme una Big Mother: la Grande Madre dotata di filtri da mettere ai computer e di programmi in grado di monitorare l’accesso ai siti. I nostri pre – adolescenti, adolescenti e giovani adulti ci feriscono con le loro armi tecnologiche, nascondendosi tra g l i specchi di mille schermi?
E noi, genitori moderni, rispondiamo con le stesse armi, più o meno. Lo facciamo — così ci ripetiamo — per «proteggerli da se stessi» in un mondo che è diventato infinito e infinitamente più pericoloso di quello che noi abbiamo affrontato alla loro età. In assenza di segnali, andiamo in cerca di tracce che ci riportino a loro.
Lo sappiamo, questo inseguimento è un inganno: il tormento è che sacrificare la fiducia tra noi possa diventare un male peggiore dei pericoli dai quali volevamo allontanarli. E dunque ci chiediamo che fare, sempre più confusi e storditi dalle storie di cronaca: che ci parlano di bambine pronte a scambiare un corpo giovane per i soldi di uomini classificati con un numero; che ci raccontano di anime incerte annientate da giochi omicidi su siti mai spenti.
Ci rimangono vecchie armi, forse spuntate, ma sono le nostre. Essere presenti ed esercitare un’antica attenzione, oltre il brusio delle nostre giornate difficili e il silenzio dei loro muri ostili. Rispettare l’identità dei nostri figli anche quando non ci somigliano: soprattutto quando non ci somigliano. Jay Griffiths, autrice di un libro che è un lungo viaggio-studio nella felicità perduta dei ragazzi, sprona i genitori a essere coraggiosi e a non considerare mai i figli una proprietà: a volte il contrario dell’obbedienza non è la disobbedienza ma l’indipendenza, il contrario del controllo non è il caos ma l’autocontrollo, il contrario dell’ordine non è il disordine ma la libertà.
Twitter@bastefanelli