Il gioco del “noi e loro” noi adulti lo giochiamo ogni volta che ci viene spontaneo pensare (e dire, e magari scrivere in un manifesto con altri 600 firmatari…) che noi eravamo diversi: seri, studiosi, applicati, capaci, intelligenti, grammaticalmente impeccabili… Loro, invece (i bambini e i ragazzi di oggi) non sanno più ragionare, non sanno più scrivere, sempre con quegli aggeggi in mano… Si tratta di un gioco che non serve a nessuno. Anzi, forse serve soltanto a noi per trovare un alibi alla nostra incapacità di capirli, di adattarci a loro, di vincere la sfida che ci si presenta. Se sono loro a essere diversi, allora forse non abbiamo colpe… Io credo che i nostri bambini, i nostri ragazzi, siano migliori di quel che pensiamo e diciamo e penso che in fondo non ce li meritiamo, non ce li meritiamo proprio. Perché per meritarceli, dovremmo amarli. Se li amassimo non ci sarebbe spazio per le lamentele, per i manifesti: ci sarebbe spazio solo per la sollecitudine educativa. E il loro sguardo riconoscente (lo sguardo di chi ti riconosce, perché si sente riconosciuto) ci mostrerebbe il senso vero (e la felicità assoluta) dell’insegnare.